A volo di farfalla, nel Classico Berardenga

La riflessione è sempre la medesima. Viviamo in un paese che di cultura e tradizioni è ricco, ma soprattutto di persone che intraprendono con passione creando le eccellenze che fanno unici i nostri territori. Questa volta siamo nel Comune di Castelnuovo Berardenga, che definisce a sud, alle porte di Siena, il confine del Chianti Classico.

A volo di farfalla, perché il territorio del Classico Berardenga ha una forma che ricorda il leggiadro insetto, eletto a elemento distintivo da parte del gruppo di aziende vitivinicole che in questa area si sono riunite in Associazione, determinate a raccontare le peculiarità del loro territorio che pur facente parte del più esteso Chianti Classico, ha una propria identità. E quindi anche noi, piccolo gruppo di appassionati proveniente un po’ da tutta Italia, come la farfalla ci concediamo il lusso di volare alla scoperta di questo paesaggio, tra dolci colline piene di luce dove vigne e oliveti si alternano a brevi aree boschive.


Dal 22 al 24 di ottobre per un altro Blog Tour a firma AIFBAssociazione Italiana Food Blogger – in compagnia dell’amico Marco Bechi che ha scelto per noi le realtà che vi andrò a descrivere, e che ci ha fatto da paziente guida.
Ogni luogo un’emozione, ogni persona una storia, tanti i dettagli e le cose da raccontare, perciò andrò in ordine di “apparizione” seguendo un percorso fatto di frequenti passaggi da un’ala all’altra della nostra farfalla e che di conseguenza ci ha consentito una visione completa di questo affascinante territorio.

Si parte! Verso le 12 dalla città di Siena per un itinerario a tappe, dove le più lunghe sono di una ventina di chilometri, e questo ci dà già la misura della densità delle eccellenze presenti in questo territorio.
Clima ideale, ci accompagna un cielo azzurro con nuvole sparse e un’aria limpida che ci permette di vedere lontano. Ci allontaniamo da Siena per farvi ritorno solo alla fine del tour, ma il suo skyline all’orizzonte sarà presente durante tutti i nostri spostamenti, sempre visibile dai borghi, le aziende o le ville poste quasi sempre in posizione dominante. Infatti, la morfologia del territorio caratterizzata da morbide colline che si alternano l’un l’altra, rende quasi sempre liberi gli ampi orizzonti.

22 ottobre
Fattoria di Petroio, Certosa di Pontignano, Azienda Agricola San Felice

Giungiamo in pochi minuti alla Fattoria di Petroio, nostra prima tappa. Piccolo Borgo e Fattoria di proprietà della Famiglia Lenzi. Pamela, fa gli onori di casa e inizia a raccontare con orgoglio tracce significative della storia di famiglia. Gian Luigi, suo marito, eredita la proprietà dal nonno all’inizio degli anni ’60, e assieme a Pamela concentra gradualmente l’attività della fattoria nella produzione di Chianti Classico e Olio Extra Vergine di Oliva di alto profilo.


Con Pamela assieme allo staff di vigna e di cantina, Ilaria e Alessio, andiamo prima a dare uno sguardo ai vitigni, dove avviene la selezione delle uve da vinificare. Quando siamo nella cantina di affinamento, percepiamo l’impegno e la passione che mettono in questa azienda per raggiungere i risultati che di lì a poco andremo a degustare.


Pamela e Gian Luigi giustamente hanno pensato che non c’è modo migliore di apprezzare un buon vino che affiancarlo a del buon cibo, così ci invitano a seguirli nella loro dimora dove ci attende un delizioso light lunch. Dal salotto si accede alla grande terrazza, da dove in attesa del pranzo ci godiamo la vista di Siena all’orizzonte e su parte dei 16 ettari di vigneto della proprietà, di cui 9 in produzione.


Sediamo al tavolo da pranzo nel loro salotto circondati da mobili e oggetti che da soli raccontano la storia di famiglia. E mentre Pamela si occupa della regia, Gian Luigi ci allieta con qualche simpatico aneddoto di famiglia. L’entrée è una deliziosa insalatina agrodolce accompagnata da un vino dal nome curioso, Poco Rosso, che pare un rosato ma in realtà è un giovane e fresco sangiovese, davvero ottimo con l’antipasto. Pamela prosegue con un sublime patè di fegato di fagiano, che capiamo fa impazzire anche Gian Luigi, oltre noi, e arriva in tavola anche il Poggio al Mandorlo, che non fa una piega abbinato alla ricetta segreta di Pamela. Mentre indugiamo sul paté di cui tutti si rifanno con piacere, arriva il Chianti Classico Fattoria di Petroio che fa da spalla al rollé di pollo con patate arrosto e spinaci, ottimi entrambi.

Ci viene infine offerto anche il Riserva, con nostra sopresa abbinato ad un loro prodotto, il Choco Wine, una pasta di cioccolato al Chianti Classico, davvero interessante e incredibilmente perfetta con il loro Riserva.
E il momento del congedo arriva, ormai fuori dalla nostra tabella di marcia, per forza della piacevole convivialità che ci siamo voluti godere assieme alla Famiglia Lenzi.

Quindi tutti in carrozza per dirigersi alla maestosa Certosa di Pontignano.
Siamo in questo territorio per scoprire vini e gastronomia ma questo luogo val bene una sosta, vista la bellezza di questo complesso monastero dai quattro chiostri. Non abbiamo molto tempo nella nostra agenda, ma ci prendiamo comunque quello necessario per avere una esauriente percezione del luogo.


La certosa è centro congressi, albergo, ristorante, e la presenza di un mirabile giardino all’italiana di notevole dimensioni la rende particolarmente richiesta per eventi di grande portata. Nonostante sia attualmente in corso un restauro ci viene concesso di visitare brevemente l’interno della chiesa, con le volte completamente affrescate, che non a torto viene definita la piccola Sistina.


Si fa notare il grande loggiato che orientato a sud e inondato dal sole che si avvia al tramonto, si affaccia sul giardino.
Ma il tempo corre inesorabile e Marco ci tira per la giacca e ci fa risalire in auto. Vi lascio in compagnia delle foto che in questo caso raccontano quanto le parole.

Ci spostiamo nell’ala destra della farfalla per raggiungere Borgo San Felice quasi al tramonto, del resto siamo in ottobre e le ore di luce scemano. Leonardo Bellaccini ci stava aspettando e visto che la luce ancora ci consente, rimandiamo al mattino seguente la visita del complesso e ci avviciniamo, sotto la sua guida, ai filari di vigna che circondano il borgo storico, dove abbiamo i primi dati sulla dimensione aziendale.


600 ettari di cui 150 a vigneto nel territorio del Classico Berardenga, oltre altri 22 ettari a Montalcino di cui 14 di Brunello e 6 ettari a Bolgheri. All’inizio di un filare ci sorprende l’insegna in ferro “VITIARIUM”, piuttosto inconsueta come ingresso in vigna, così ci spiega che si tratta di un vigneto sperimentale dove alla fine degli anni ’80 inizia un’attività di ricerca sui vitigni autoctoni, sulla quale l’Azienda Agricola San Felice imposta la sua filosofia produttiva, per utilizzarli poi nei blend con il sangiovese, e dare così più forza al legame con il proprio territorio.


L’azienda vanta tappe significative di innovazione a partire dalla fine degli anni ’60 quando esce il Vigorello il primo Supertuscan a prevalenza Cabernet Sauvignon e Merlot, a cui recentemente è stato aggiunto il Pugnitello, antico vitigno toscano, sempre nell’ottica della caratterizzazione territoriale.
Adesso il sole è scomparso dietro l’orizzonte dei vigneti, così ci ripromettiamo di tornare al mattino per avere una migliore percezione e fare qualche foto. Seguiamo Leonardo che ci conduce in cantina per aggiungere qualche dato sugli aspetti prettamente produttivi, prima di concludere con una degustazione. Nella sala, davanti a una mappa comprendiamo la geografia delle tenute, anche rispetto alla macro area del Chianti Classico, e la conformazione dei vari terreni presenti nell’area, l’analisi dei quali è fondamentale assieme alla valutazione degli aspetti climatici per la scelta delle tipologie di vitigno.

Prima della cena che ci hanno organizzato con piatti tipici toscani, degustiamo tre dei loro vini: San Felice Chianti Classico 2016 (80% Sangiovese, 20% Colorino e Pugnitello), Grigio Chianti Classico Gran Selezione 2014 (80% Sangiovese, 20% Pugnitello, Abrusco, Mazzese, Ciliegiolo, Malvasia Nera), Pugnitello 2015 (100% Pugnitello). Rimango colpito da quest’ultimo per la complessità del suo aroma e per il suo colore intenso, viene così chiamato per la forma del grappolo che ricorda un piccolo pugno.

Leonardo si congeda e ci lascia alla convivialità della cena, dove non manca l’assaggio di un ottimo olio nuovo dell’azienda.
Stanchi ma contenti di questo primo giorno, ci trasferiamo per la notte nei comodi appartamenti della foresteria dell’azienda.

23 ottobre
Borgo San Felice, Caseificio Corbeddu, Villa di Geggiano, Fèlsina,
Museo del Paesaggio e Associazione Classico Berardenga,
Ristorante La Tinaia di Borgo Scopeto

Sveglia di buon ora, giornata solare quanto la precedente, abbiamo proprio fortuna, i colori in questa stagione sono bellissimi. Prima di andare al buffet per la colazione siamo in riga sciolta per le strade di Borgo San Felice per catturare quelle immagini che nel buio della sera era inutile cercare.


Questo borgo, nel medioevo teatro di guerra tra Siena e Firenze, fu poi tenuto dalla famiglia nobiliare senese dei Taja a partire dal XVIII secolo. Nel borgo, rigorosamente tutto pedonalizzato, si alternano viuzze e piazzette, ma tutto ruota intorno alla piazza centrale con la bella casa padronale e la pieve romanica. Restaurato nel 1991 e trasformato in albergo diffuso, fa oggi parte della catena Relais & Chateaux, e consta di un albergo con 33 camere e 20 suite, due ristoranti, piscina e centro benessere che propone trattamenti incentrati sull’utilizzo di cosmetici a base di vino e olio, e sale attrezzate per convegni.


Terminata la passeggiata nel borgo, eccoci tutti riuniti per la colazione nella grande e luminosa sala del Ristorante Poggio Rosso, 1 stella Michelen. Un buffet così esteso e ricco raramente si vede, il personale di sala è squisito e la giornata non può che iniziare all’insegna del buon umore. Escono dalla cucina a più riprese madeleines al ginger appena sfornate e accompagnate da una composta di albicocche, che non vi dico! Riusciamo a conoscere anche l’Executive Chef del Borgo, Fabrizio Borraccino, che esce dalla cucina ma giusto per un breve saluto, la cucina è in fermento e non è certo l’ora dei convenevoli per lui.
Cerchiamo di non esagerare con gli assaggi, cosa peraltro difficile, perchè la giornata sappiamo che è densa di appuntamenti tutti a tema eno-gastronomico!

Seguo Marco che guida l’altra auto, e che dopo pochi chilometri tra vigne e oliveti si infila in una strada bianca per raggiungere una casa isolata, sede operativa del Caseificio Corbeddu, sulle colline di Montaperti, luogo della storica battaglia tra senesi e fiorentini.
Le segnaletiche scarseggiano, ma prima di arrivare a destinazione, gruppi di pecore al pascolo ci fanno capire che non avevamo sbagliato strada. In realtà da fuori sembra un’abitazione ma quando la porta si apre ci rendiamo conto che si tratta del punto vendita del piccolo caseificio.

E’ Santino Corbeddu in persona che ci apre la porta. Capiamo che in quel momento è da solo perciò non è possibile visitare il laboratorio, ma si prende il tempo per raccontarci la sua storia e presentarci i suoi prodotti, frutto della lavorazione del latte delle sue 450 pecore sarde. Ricotta innazitutto, ma che in questo momento non c’è, così come il Canestrato che realizza in grosse forme di 6 chili, e che ancora non è maturo. I suoi formaggi pecorini sono il Ghibellino Fresco, pronto in venti giorni, il Ghibellino Rosso con la sua crosta a base di pomodoro, il Ghibellino Nero a pasta bianca friabile con la crosta a base di carbone, e il Ghibellino Stagionato 8 mesi, oltre ad un pecorino al pepe e uno al peperoncino. Ci sediamo tutti con lui al tavolo fuori del laboratorio, dove Santino ci porta gli assaggi dei 4 Ghibellini dal fresco allo stagionato. Iniziamo ad assaggiare e il crescendo di consistenza e di intensità di gusto è davvero interessante, ci immaginiamo già qualche abbinamento con le fave fresche in primavera o con qualche composta di frutta per un antipasto in agrodolce e soprattutto con i sangiovese della zona!
Santino non è molto avvezzo alla comunicazione della sua piccola azienda, così nel mentre che ci congediamo da lui, cerchiamo di aiutarlo e di dargli qualche dritta per essere attivo sui canali social.

Ancora con le papille sollecitate dai formaggi di Santino, ci spostiamo in direzione nord-ovest, ritornando nell’ala di sinistra della farfalla. Breve comunque è il tragitto per raggiungere la Villa di Geggiano, dimora settecentesca e azienda vitivinicola.


Dalla strada non si ha la percezione del complesso immobile, perché la facciata principale della villa è rivolta verso il giardino, dietro il muro che delimita la proprietà. Parcheggiamo a fianco dell’accesso alla cantina dove ci viene incontro Alessandro Boscu Bianchi Bandinelli che ci invita ad entrare attraverso i locali tecnici dove i profumi sono inebrianti… passiamo mentre è in corso la pulizia di un tino in acciaio!

Nessuno di noi è mai stato a Geggiano, così quando sbuchiamo dalla cantina dentro il giardino restiamo a bocca aperta. Andrea, fratello di Alessandro che intanto ci aveva raggiunto per farci da guida, sorride nel vedere noi così estasiati, … chissà quante volte ha assistito a questa scena!
Quello che colpisce subito è l’atmosfera accogliente e di casa, che non si trova in genere in questi luoghi spesso interamente museificati. Capiamo perché quando Andrea inizia a raccontarci la storia del luogo e della sua famiglia.
La Villa, è rimasta chiusa e disabitata per decine di anni, dopo che il famoso archeologo, storico dell’arte e politico Ranuccio Bianchi Bandinelli l’aveva abitata a partire dagli anni ’30 fino alla sua morte negli anni 70. I nipoti Andrea e Alessandro, che fino a dieci anni fa vivevano a Roma, convinti che questo patrimonio dovesse essere non solo salvato ma reso fruibile per il suo grande valore, decidono di trasferirsi a vivere qui con le loro famiglie, conferendo nuovamente vitalità alla dimora e alla produzione di vino e olio, in un ampio progetto per il mantenimento di un bene così prezioso.
Le sale della villa, in virtù del favorevole microclima naturale, aveva fortunatamente conservato intatti tutti gli arredi e gli affreschi, le tappezzerie e le carte da parati dell’epoca. Nel 2000 quindi viene dato il via al restauro del tetto, della facciata della villa e del giardino, e dai piani adibiti all’epoca alle servitù vengono realizzate le abitazioni, dove a fine lavori vi si trasferiscono.

In fondo al giardino ammiriamo il Teatro di Verzura, un teatro open-air con il palco delimitato da architetture con le statue della tragedia e della commedia e le quinte del palco in siepe di alloro. Sarebbe magnifico tornare qui in estate quando viene utilizzato per rappresentazioni teatrali e concerti. Vittorio Alfieri mise in scena qui una delle sue tragedie … già perché qui vi ha soggiornato più volte, tant’è che nella villa c’è pure la sua camera completa di arredi!


Da un’ala del giardino si accede al grande orto tuttora utilizzato dai proprietari per la coltivazione di verdure e erbe aromatiche oltre che per la conservazione di alcuni vitigni storici. Qui si trova anche una bella cisterna dell’epoca a semicerchio dove tuttora vengono convogliate le acque piovane dal tetto della villa e utilizzate per l’irrigazione di orto e giardino.

Ma entriamo adesso all’interno della villa in compagnia di Andrea che con i racconti dei suoi antenati ci sta appassionando sempre più. L’edificio fino dal 1530 era di proprietà della Famiglia Bianchi Bandinelli che nel 1768 da un originario casolare la trasformano nell’attuale villa con giardino all’italiana e cappella. Sono del 1790 le splendide decorazioni alle quali ci troviamo davanti nella galleria d’ingresso, realizzate dal pittore austriaco Ignazio Moder e raffiguranti i dodici mesi dell’anno. Ecco, qui non sai dove guardare, anche le porte che conducono ai vari locali di piano terra sono dipinti in continuità con le murature, e già capisci che per cogliere ogni singolo dettaglio non basta una visita. Ogni stanza della villa, dichiarata Monumento Nazionale, è ricchissima di oggetti e dettagli connessi alla storia della famiglia.


Prima di proseguire la visita al piano superiore, indugiamo in una sala stretta e lunga a fianco dell’ingresso e che affaccia sul giardino, dove le signore all’epoca si ritiravano in conversazione al riparo dal sole, abbronzarsi in quel periodo era indice del lavoro nei campi e quindi inopportuno assai per le dame.
Entriamo nel salotto di piano terra dove si nota subito il gigantesco camino abitabile, certamente il luogo più affollato nei periodi freddi, e alcune riviste aperte sul grande tavolo con varie recensioni sulla villa ci attirano, fra queste una con le scene del film “Io ballo da sola” che il regista Bertolucci ha girato proprio in questi interni e nel giardino.


Sebbene stremati dalla sindrome di Stendhal, visitiamo anche il piano superiore, dove le sale sono ancora più affascinanti: la Sala Blu così chiamata per i toni della carta da parati dell’epoca perfettamente conservata, una camera dove il tessuto giapponese va in continuo su tendaggi, pareti e arredi incluso il letto a baldacchino, la camera di Vittorio Alfieri, l’enorme studio e in ogni dove un tripudio di decorazioni, grottesche e affreschi allegorici.

E qui la visione dei vari ambienti si intreccia con i racconti di aneddoti di famiglia, ma capiamo che sono solo pillole rispetto alla quantità di informazioni che Andrea potrebbe trasmetterci.
Siamo a fine mattinata e ci chiamano in sala pranzo dove ci aspetta un maestoso buffet con prodotti locali sapientemente confezionato dalla cuoca di casa. Nella bella sala che affaccia sul giardino c’è anche una grande stufa in maiolica bianca che mi fa capire che questa sala non è soltanto parte del museo, ma giustamente in uso per la vita di società degli abitanti della casa. Su una consolle a parete, i Vini della Villa di Geggiano che durante il pranzo Andrea e Alessandro, che nel frattempo si è riunito a noi, ci presentano.

Qui la produzione del vino inizia nella prima metà del ‘700, ed è Niccolò Bandinelli che inizia ad esportare i vini in Gran Bretagna. Oggi la produzione segue i principi dell’agricoltura biologica per i vigneti che per 20 ettari si estendono tutto intorno alla villa ad un’altitudine che varia tra i 300 e i 350 metri.
In apertura del pranzo ci fa compagnia il Bandinello 2017, un vino che sposa bene la sapidità di salumi, formaggi, vol au vent al fungo e tartufo e crostini di fegatini, con il suo 60% di Sangiovese, 20 di Sirah e 20 di Ciliegiolo. Oh, naturalmente anche in questa occasione non può mancare la tradizionale bruschetta per l’assaggio del loro olio extra vergine di oliva appena franto!
Andiamo in crescendo di corpo e struttura con il loro Chianti Classico Villa di Geggiano 2015 di Sangiovese in purezza, che si abbina bene alla lasagna con le verdure dell’orto, buonissima da bis. Infine ci guidano in una verticale dei loro Riserva Villa di Geggiano 2012, 2009, 2006 che utilizza Sangiovese al 97% e 3% di Cabernet Sauvignon, con i quali ci vado piano, nonostante chiamassero tutti a replica, perché fra pochi minuti sarò di nuovo alla guida con la responsabilità di portare assieme a Marco il gruppo sano e salvo alla successiva tappa del nostro tour.
E giunta l’ora di congedarci a malincuore da Andrea e Alessandro che con la loro squisita ospitalità ci hanno proiettato in un film indietro nel tempo, e con un finale da leccarsi i baffi!

Again on board, volando sull’altra ala della farfalla nei pressi di Castelnuovo Berardenga dove appena fuori dal capoluogo c’è Fèlsina, azienda nata nel 1966 quando la Famiglia Poggiali dopo l’acquisto dei terreni decise di iniziare la produzione di vino di qualità.
Fèlsina non è solo produzione di vino e olio ma anche fattoria con allevamento di animali da cortile, riserva di caccia e orto. Tutti i prodotti si possono acquistare alla loro bottega o prenotarsi per percorsi nei quali si possono apprezzare in abbinamento ai loro vini.


Noi siamo qui, in ragione del nostro programma a tappe, unicamente per la visita delle cantine e per la degustazione di alcuni dei loro vini e della loro produzione di olio, così dopo aver scattato un paio di foto della bella piazza dove si affaccia la bottega con la sala degustazione e il bel palazzo da dove si accede alle cantine, iniziamo la visita.
Il primo ambiente della cantina è una grande sala a tre navate con un bel colonnato dove troviamo le prime grandi botti per la maturazione. Da qui si snoda un percorso con una volta a botte, e che a mo’ di chiocciola scende rapidamente sotto terra. Dobbiamo tenerci al corrimano perché il percorso è assai ripido, e così possiamo ammirare in sicurezza la bella volta a mattoni e grazie al gioco di luci la trasparenza dei bollitori sui tini.

Rapidamente arriviamo alla sala di affinamento in barrique dei loro Chianti Classico e quella dedicata alla fermentazione dello Spumante Brut e Brut Millesimato entrambi a prevalenza di Sangiovese oltre Pinot Nero e Chardonnay. Nel percorso di ritorno, prima di uscire dalla cantina, diamo uno sguardo alle stanze dove il Vin Santo viene affinato in caratelli di rovere per 7 anni.
Entriamo nella bottega per la degustazione che è quasi buio, la stanchezza comincia a farsi sentire ma la curiosità la tiene a bada egregiamente.

Iniziamo con i vini, quattro soltanto dei loro undici, altrimenti il nostro palato si sarebbe ribellato, sapendo poi che il lavoro del giorno non finiva qui. I Sistri 2016, un gradevolissimo Chardonnay 100%, il Chianti Classico Berardenga 2016, il Chianti Classico Rancia 2015, l’IGT Fontalloro 2015, tutti Sangiovese 100%,  e tutti apprezzabili per il loro carattere in crescendo di importanza.


Devo confessare che personalmente non vedevo l’ora di degustare il loro olio extra vergine, non solo perché sono olio-dipendente, ma soprattutto perché all’assaggio ne avevamo ben cinque, 4 monocultivar e 1 plurivarietale. Beh, un’esperienza molto interessante, quando degustati uno dopo l’altro sono riuscito ad apprezzare le differenze e a stilare la classifica del tutto personale naturalmente. Le varietà erano, Pendolino, Leccino, Moraiolo, Raggiolo, e il Berardenga Plurivarietale con le quattro monocultivar. Premesso che erano tutti e cinque di gran carattere, e si trattava del raccolto 2017, non ho avuto dubbi, il palmarès se lo era aggiudicato il Pendolino, per la sua leggerezza unita ad un gusto piacevolmente piccantello.
Lasciamo la bottega di Fèlsina e saliamo di nuovo in auto, anche se non sarebbe stato necessario, visto le poche centinaia di metri che ci separavano dalla prossima tappa.

Entriamo nel Museo del Paesaggio, a Castelnuovo Berardenga, dove ad attenderci c’è Elena Gallo, presidente dell’Associazione Classico Berardenga, sorridente nel vederci ancora in piedi sulle nostre gambe! Ci accomodiamo e dopo un giro di presentazioni, Elena fa partire alcune slide per farci comprendere storia e obbiettivi dell’associazione.
L’associazione che conta ad oggi 28 viticoltori del Comune di Castelnuovo Berardenga, si è costituita nel 2015, e anche se giovanissima si dimostra ben determinata e con obbiettivi precisi.
Questo territorio, forte del legame storico e culturale con la città di Siena e considerato la parte più senese del Chianti Classico, e da sempre vocato alla viticoltura per le sue straordinarie condizioni microclimatiche, con una superficie di 1360 ettari a vigneto di cui 810 con Denominazione Chianti Classico e con una produzione media annua di 6.300.000 bottiglie di cui 3.450.000 di Chianti Classico e un export del 73% del venduto. L’Associazione è impegnata in tante attività come la presenza istituzionale alle fiere di settore, i convegni, l’Enoteca qui al Museo del Paesaggio, l’impegno di comunicazione verso i ristoratori dell’area per far sì che nella carta dei vini vengano evidenziati quelli appartenenti al territorio.

Ma la vera mission dell’Associazione si concretizza nel progetto che basato sulla ricerca tecnico-scientifica permetterà di poter parlare di unicità del territorio per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto con ricadute sulla crescita dell’intera denominazione. Partito con le microvinificazioni, ovvero l’identificazione delle differenti espressioni del Sangiovese coltivato sui tre terreni tipici, macigno, galestro e sabbie plioceniche, oggi il progetto prosegue verso la caratterizzazione dei Cru aziendali, per mezzo di uno studio approfondito di natura geo-pedologica, climatica, agronomica ed enologica, per poter comprendere come interagiscono fra loro i diversi fattori e raggiungere livelli ottimali di qualità dei vini prodotti dal Sangiovese. Verrà svolto sui vigneti a maggior vocazione delle varie aziende, per un periodo di tre anni, attraverso analisi e monitoraggio costante dei risultati.
Elena volutamente non si addentra troppo sugli aspetti tecnici del progetto che non sarebbero per noi di facile comprensione, ma è riuscita senz’altro a trasmetterci che fare squadra per una mission così ambiziosa e l’unico modo per raggiungere risultati concreti per il futuro della crescita dell’intera area.
La ringraziamo della presentazione e vista la passione che ci mette le auguriamo il meglio per questa importante iniziativa.
L’ospitalità dell’Enoteca e sede del Museo non poteva non prevedere un aperitivo di saluto con i vini delle aziende del gruppo e una tavola di finger food uno più buono dell’altro!
Facciamo volentieri dei piccoli assaggi ma senza esagerare, sapendo che non manca molto all’ora di cena e che questa sarà qualcosa di speciale.

Puff … si riparte! Direzione ala sinistra della farfalla, in posizione diametralmente opposta alla attuale. E’ buio, ma cerchiamo di andare spediti dopo aver avvisato il Ristorante La Tinaia che arriveremo un po’ più tardi del previsto a Borgo Scopeto, dove ci fermeremo anche per la notte, alleluja!


Arriviamo e dal parcheggio percorriamo il viale di cipressi che conduce all’ingresso del borgo. Nonostante la stanchezza non possiamo non notare la torre medievale di imponente dimensione. Borgo Scopeto, dal 1300 è proprietà della dinastia senese dei Sozzini che la manterrà fino alla sua estinzione nel secolo scorso. Il nome si deve alla pianta dell’erica scoparia, quell’arbusto che veniva utilizzato per fabbricare le scope e ancora presente nei lecceti della zona.
Oggi questo borgo dai tratti austeri ma eleganti, è un hotel di lusso per soggiorni esclusivi e dotato di camere di tutti i livelli dalla classic alla executive, davvero eleganti e confortevoli. Neanche a dirlo, il silenzio regna in questo luogo a garanzia del totale relax, in tutti gli spazi comuni come la bella piscina e il grande prato tra questa e l’antico cassero con la torre.


Dopo il rapido check-in in cui ci consegnano le chiavi delle camere, siamo pronti per la cena che nonostante l’ora tarda è comunque preceduta da un aperitivo con bollicine durante il quale prendiamo confidenza con gli ambienti del Relais e facciamo conoscenza con il Maitre di sala Adriano Guerri che ci assisterà per tutta la durata della cena presentandoci con professionalità i vini del Borgo abbinati ai piatti.

Prendiamo posto in sala per iniziare la cena, il servizio è impeccabile, la gentilezza di casa. A quell’ora tarda, gli ultimi ospiti si stanno alzando da tavola perciò ci sentiamo un po’ in colpa per aver complicato il lavoro allo staff di cucina. Ma l’atmosfera è così piacevole che riusciamo a rilassarci e a goderci una splendida cena di 6 portate a firma dello Chef salernitano Angelo Maucione che ci rinfranca dalle “fatiche” della giornata.

Angelo in anticipo sull’uscita di tutti i piatti, esce dalla cucina e arriva al tavolo per poterceli presentare uno ad uno: passato di fagioli con baccalà, cavolo nero e pane croccante – tortino di patate cotta al sale e crema di pecorino al tartufo – pici al sugo di nana al timo con passato di pere autunnali – passata di peperoni rossi e gialli, spinacino e agnello – pre-dessert di cioccolato bianco e frutti di bosco – cremino alla senese all’uva passa su crema di marroni e spuma di castagne, gocce di fondente, mirtillo e fragola.
Mentre Adriano, portata dopo portata ci serve: Palazzo Altesi 2015 (Chardonnay 75, Sauvignon 25, Traminer 5), Caparzo Ca’ del Pazzo 2014 (Sangiovese 50, Cabernet Sauvignon 50), Moscadello di Montalcino con vendemmia tardiva.


Che dire, entusiasmante. Alla fine abbiamo chiesto di conoscere tutto lo staff di cucina che si è meritato un grande applauso assieme allo Chef Angelo e al Maitre  Adriano.
E’ tardissimo … foto di gruppo tutti assieme e di corsa a letto!

24 ottobre
La Cantina di Borgo Scopeto, Tipica Macelleria Rapaccini, La Bottega del 30

Sveglia ore 7, colazione, e per le 9 dobbiamo partire.
Quando ci incontriamo nella sala dove è allestito il buffet, ci poniamo tutti la stessa domanda: come faremo a sostenere una degustazione di vino alle 9,30 del mattino? Ma soprattutto ad apprezzarla dopo una giornata come quella di ieri? Mission impossible.
Perciò all’arrivo alla Cantina di Borgo Scopeto poco distante dal Relais, confessiamo la cosa a Simone Giunti che era lì ad attenderci e che ci comprende perfettamente; oltretutto anche a lui non farebbe certo piacere guidare una degustazione con interlocutori svogliati. Perciò ci avviamo con serenità alla visita della struttura produttiva.


Si tratta di un’architettura moderna rinnovata e ampliata negli ultimi anni e dotata di moderne tecnologie per la vinificazione. Prima di entrare nei locali tecnici, Simone ha piacere di farci avere, salendo all’esterno fino all’edificio più alto della struttura, una visione d’insieme della cantina e di una parte dei terreni a vigneto della proprietà che si estendono per 70 ettari sui 500 totali.


Questa è la stagione dove i colori delle foglie della vite, così come di tante piante, mutano il colore. Perciò Simone, cogliendo questa coincidenza stagionale, ci fa notare che è possibile comprendere nella stessa vigna dove terminano i filari di cabernet sauvignon che in questo periodo mantengono ancora una colorazione verde, e iniziano quelli del cabernet frank che invece virano al rossastro, o il merlot che è verde acceso oppure il sirah che diventa verde chiaro, e la foto parla chiaro a proposito.

Terminato questo excursus, iniziamo la discesa dall’interno passando per la grande sala delle vasche in acciaio che sono ben 50 per un totale complessivo di capienza pari a 7000 ettolitri. Proseguiamo nei locali deputati all’affinamento e invecchiamento che avviene in botti di rovere di slavonia di 30 ettolitri e in tonneaux di rovere fancese di 300 e 500 litri. Infine arriviamo all’ingresso e al punto vendita, da dove eravamo partiti.
Simone, sapendo che avevamo rinunciato alla degustazione, al momento dei saluti ci omaggia di una bottiglia di Chianti Classico Borgo Scopeto augurandoci una più serena degustazione al rientro.

Tutti in macchina, per l’ultimo mini transfer di nuovo nell’ala destra della farfalla … se si avanti così ci sta che iniziamo a volare anche noi!
Ponte a Bozzone è un piccolo agglomerato di case dove non ti immagineresti mai di trovare una bottega dove sai quando entri ma non sai quando esci, e soprattutto come va a finire! Mi spiego meglio perché detta così pare la scena di un thriller. In realtà sto cercando di introdurvi uno dei luoghi più guduriosi della campagna senese.


Siamo da poco entrati nella Tipica Macelleria Rapaccini dove se anche ci entri a occhi chiusi capisci che sei lì dai profumi che salsicce e prosciutti appesi in quantità, emanano.
Cesare ci accoglie con un gran sorriso, termina di servire un cliente e torna da noi. La macelleria ha una storia lunga quattro generazioni che dalla fine dell’800, quando era a Siena nei pressi di Porta Camollia arriva sino ad oggi. Fu negli anni ’50 che il padre trasferì la proprietà a Ponte a Bozzone rilevando successivamente i locali dove ancora oggi si trova e passando il testimone al figlio Cesare.
Ma in bottega scorgiamo anche una signora anziana, è la madre di Cesare, che lui chiama fuori dal laboratorio perché ce la vuole presentare. Lei si avvicina a noi e la prima cosa che ci dice è che è troppo vecchia per quel lavoro che oramai fa da tanti anni e che vuole smettere, ma le leggiamo negli occhi che non lo farà perché stare accanto al figlio per dargli una mano in un lavoro appassionante non ha prezzo!
La Macelleria Rapaccini lavora da sempre all’insegna della genuinità del prodotto finale preparato utilizzando solo carni provenienti da allevamenti locali attenti alla corretta alimentazione degli animali. E negli insaccati non vengono utilizzati né coloranti né conservanti.


Cesare ha già il coltello in mano, pronto a preparare un tagliere di assaggi. Noi gli chiediamo di andarci piano, è vero che sono già le 11 ma lui non sa che cosa abbiamo fatto nei giorni precedenti e soprattutto cosa faremo per pranzo.
Ma nonostante la sua buona volontà, il tagliere avrebbe sfamato un’intera squadra di calcio. Salame cotto, salame classico, finocchiona, capocollo, il rotolo del bozzone (un prosciutto arrotolato), capocollo, soppressata da capogiro e una salsiccia cruda da svenire! Ah, si era dimenticato di una sua specialità da affettare, trippa, lampredotto e testina pressati e da condire con pepe e sale. Ci chiede se la vogliamo assaggiare … io da buon fiorentino sono il primo a dire sìììì! Stupenda, l’ho ripresa tre volte. Diciamo, due cosine per lo spuntino di mezza mattinata, una libidine, speziature perfette, sapore di genuinità.
Siamo nell’ultimo giorno di tour, e malauguratamente Cesare ha anche l’attrezzatura per il sottovuoto… questo ci costringe a fare una spesina da portare a casa dove non potrei mai tornare a mani vuote, con rischio di essere cacciato. Così oltre a soppressata, salsicce e rotolone, mi prendo pure una cosa che non era in assaggio ma che mi attira assai, il Tonno del Chianti, un filetto di maiale cotto, speziato con pepe e sale e messo sott’olio.
Abbiamo fatto mezzogiorno e a quell’ora arrivano clienti in bottega così decidiamo di lasciare al lavoro Cesare e la sua deliziosa mamma. Salutiamo e partiamo di nuovo, impazienti di goderci l’ultima tappa, una sorpresa che Marco ci ha riservato.

Nel tragitto verso Villa a Sesta ci prendiamo qualche minuto per una sosta davanti a uno dei tanti strabilianti paesaggi per fare foto a distese di vigneti alternati a casolari in pietra, cipressi e oliveti. La giornata si è fatta ventosa e l’aria è pulita e fresca.


Questa è la storia di una ragazza francese, professoressa di lingue, che a vent’anni viene in Italia per vedere da vicino l’arte che la nonna le mostrava sui libri da piccola.
Giunta a Siena, la ‘cittina’ s’innamora di un D’Artagnan nato all’ombra del palio, baffi e pizzo, orafo e cantante.
Quanto segue è il racconto di trent’anni di padelle e coperti, sogni realizzati e sconfitte incassate.
E’ il ricordo di vite che si sono intrecciate tra le case di un piccolo borgo di nome Villa a Sesta e le voci di chi ha trovato ristoro alla Bottega del 30”.
Ci troviamo a La Bottega del 30, la ‘cittina’ è Hélène Stoquelet e questo brano è tratto dalle prime pagine del suo libro. Sì perché Hélène mentre ci saluta alla fine di un pranzo a dir poco commovente, ci dona il libro andato in stampa un anno fa e che ha scritto assieme al suo compagno di vita Franco Camelia. Lui da quest’anno non c’è più e questo si leggeva nei suoi occhi.

Appena rientrato a casa l’ho letto in un soffio, “In un attimo alla finestra” il suo titolo, è un libro che parla molto con le immagini, ma le poche parole bastano per raccontare l’intensità di una vita vissuta in questo piccolo e sperduto borgo, sulla scommessa della Bottega del 30, questa piccola trattoria che è riuscita a sconvolgere un’intera comunità.
Dopo solo dieci anni di lavoro nel 1997 arriva inaspettata la Stella Michelin, e fu il cambio di passo, un riconoscimento guadagnato sul campo che diede nuova vitalità al progetto.
Se leggete il libro, vi viene voglia di andar a trovare Hélène, se andate invece alla Bottega del 30 non potete non conoscerla personalmente, e allora vi verrà voglia di leggere il suo libro.
Da quando Franco si è ammalato nel 2007, Hélène è stata costretta a trovare un aiuto per la conduzione della bottega, non solo per poter stare con il suo compagno ma perché lui era nella Bottega del 30, intrattenimento, teatro, socialità, progetto. Ecco che allora si affianca a lei in cucina Nadia Mongiat, giovane friulana determinata e bravissima.
E oggi abbiamo la fortuna di essere qui a conoscerle entrambe. Grazie Marco.

Prima di sederci a tavola nell’accogliente interno della trattoria, ci facciamo le foto tutti insieme nella corte interna, che è poesia pura, ed Hélène ci fa notare quella finestra dalla quale, Hélène e Franco affacciati quel lontano giorno di trent’anni fa, maturano l’idea di aprire la bottega.


Eccoci a tavola. So già che ci aspetta un esperienza indimenticabile. Mi limito a fare l’elenco dei piatti senza commentarli per non essere pleonastico, tanto so che ci andrete prima o poi.

Neccio con ricotta di pecora all’erba cipollina e prosciutto toscano, Cornetto con patè di fegatini di pollo, Chips di patatine viola, Chiocciola gratinata al burro e dragoncello.
Spumante millesimato metodo classico Brut Felsina
Spaghetti 30 uova al tartufo e petto d’oca affumicato.
Quaglia farcita con bieta e salsiccia, crema di castagne e fondo al vin santo.
– Chianti Classico Il Palei 2014, Villa a Sesta
Torta al cioccolato, semifreddo al pistacchio, caramello salato e anacardi sabbiati.
– Cristina vendemmia tardiva, Roeno, Veneto (Pinot grigio, Sauvignon blanc, Chardonnay, Picolit)

Avete letto bene? Che cosa aspettate a prenotare?
Noi ce ne andiamo, con il libro, un dolcetto per ricordo, e i dolci sorrisi di Hélène e Nadia.

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