Chi dice che in cucina ci sono delle regole precostituite, si sbaglia. Anche la mera esecuzione di ricette tradizionalmente consolidate ci porta inevitabilmente a risultati dalle mille sfumature, vuoi perché gli ingredienti non saranno mai identici, vuoi perché la mano ci mette la sua imponderabile dose di personalizzazione.
Mi ha ispirato questa riflessione un libro che mi hanno regalato gli amici Enri e Susa, “ricette anarchiche” di Rino De Michele e altri autori. Come dice l’autore nella presentazione, “il senso di tutta l’operazione sta nell’accostamento e nel significato puramente letterario delle parole ricetta e anarchia” – Ricetta: rimedio, indicazione scritta o orale delle norme per preparare un composto, sistema, espediente – Anarchia: dottrina sociale e politica che propugna l’uguaglianza e l’abolizione di ogni autorità accentrata.
In ogni singola ricetta tramandata c’è un pezzo di storia vissuta, c’è il racconto dei popoli che, per dirla concretamente, dovevano pur mangiare per arrivare fin qui. E il libro è infatti un continuo intreccio di memorie di episodi di vita e narrazioni di ricette ad essi strettamente connessi. In verità il libro è molto di più di questa estrema sintesi, e perché non me ne vogliano gli autori, ma anche per suggerire un interessante approfondimento, rimando alla visione di http://vimeo.com/20212710
Proprio così, il cibo vero è un mix di culture, esperienze, memorie ma soprattutto intimo desiderio di liberare la propria creatività. Perciò questa volta, con l’intento di dare libero sfogo a questa, me ne sono inventata una pescando nei ricordi, nella tradizione di casa e nella mia esperienza personale, ma soprattutto attingendo da ciò che al momento abitava nel frigorifero di casa e mi sono messo al lavoro. Non vi faccio l’elenco di tutto quello che nel mio frigorifero era custodito quel giorno, ma solo di quello che ho individuato come papabile per tirar fuori qualcosa di credibile … o meglio di edibile. C’erano delle fette di fesa di tacchino, sedano, carote, vino bianco aperto. Fuori dal frigo, ciò che non può mancare mai, altrimenti tanto vale appendere le padelle al chiodo, ovvero: aglio, cipolla, olio e.v. di oliva, farina, sale, peperoncino, e poi pasta di acciughe (balena! non mi danno la percentuale ma è la migliore e per noi fiorentini a km zero) ma se non l’avete va bene lo stesso, patate, stuzzicadenti. Fuori casa, vivendo in campagna, le erbe che non mi faccio mai mancare: alloro, salvia, rosmarino, prezzemolo.
Pensavate che vi davo delle dosi per quattro o sei persone? Niente affatto, arrangiatevi come mi sono arrangiato io in quel momento, che significato avrebbe …. tanto in frigo icché c’è c’è!
A posteriori gli ho dato il nome di Tacchino a Spillo con Patate
Iniziate con un battuto di cipolla, carota, sedano, prezzemolo, una strizzatina di tubetto di pasta di acciughe, messi a rosolare lentamente in una padella con olio; salate e fate attenzione che non vi bruci e se asciuga troppo aggiungete via via un poco di acqua. Fate un trito di aglio, alloro, rosmarino, salvia e lasciatelo lì che serve dopo. Lessate delle patate in acqua salata e levatele al dente. Prendete un tagliere grande, adagiatevi una per volta le fette di fesa di tacchino e battetele fino a ridurle ad uno spessore di circa 3 mm, di solito le trovate in commercio più alte. Per far questo l’ideale è quella specie di grande martello di ferro o di legno, se non lo avete prendete il coltello più largo e più pesante che avete e armatevi di pazienza. Adesso sulle fette assottigliate stendete uno strato del battuto appena cotto, arrotolate la fetta a formare un involtino e chiudetelo infilzandolo con uno o più stuzzicadenti. Mettete dell’olio in una casseruola larga, e scaldate a fuoco medio il trito che avete già preparato, aggiungendo peperoncino s.c. (secondo coscienza), adagiatevi gli involtini e fateli rosolare da entrambi i lati, salate, annaffiate con vino bianco, aggiungete le patate tagliate a pezzi e incoperchiate abbassando la fiamma al minimo. Controllate ogni 5 minuti girando involtini e patate e se si asciuga annaffiate ancora con vino, se s’imbriaca è meglio. In circa 15/20 minuti potete sicuramente mettervi a tavola, versando nei calici un buon rosso della casa.
Vi invito a fare la vostra sperimentazione con quello che la vostra ghiacciaia ha deciso di conservare amorevolmente, il mio risultato era soddisfacente, quindi buon divertimento!